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L’installazione su area pubblica di un chiosco per la vendita di giornali o per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande richiede, oltre all’autorizzazione per l’occupazione di suolo pubblico e a quella per l’attività commerciale, anche il permesso di costruire di cui al DPR 380/01.
Qualificandosi le opere edilizie come intervento di nuova costruzione e dunque di trasformazione del territorio, esso è assoggettato al preventivo rilascio del permesso di costruire, a prescindere dai materiali con cui è costruito e se sia temporaneo o permanente.
Quello che conta è comunque la trasformazione urbanistica apportata dal chiosco.
A stabilirlo in maniera inequivocabile è la sentenza n.1106 della sesta sezione del Consiglio di Stato, emessa lo scorso 27 febbraio, che ha definitivamente dato ragione ad un Comune laziale ed alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici contrapposti ad una signora, destinataria di un ordine di immediata rimozione di un chiosco adibito a rivendita di giornali e riviste privo di idoneo titolo edilizio.
Inoltre, la Soprintendenza contestava all’edicolante la carenza del proprio parere di competenza, atteso l’impatto visivo della struttura che sorgeva su una piazza cittadina, dunque un’area pubblica, oggetto di tutela da parte della Soprintendenza stessa e di lavori di recupero e ristrutturazione da parte del Comune.
I giudici di Palazzo Spada hanno stabilito un principio chiaro.
La realizzazione di un intervento edilizio su un’area pubblica non costituisce un’esimente per l’applicazione delle ordinarie regole stabilite dal testo unico per l’edilizia, il DPR 380/01. In sostanza, per l’esecuzione di opere su suolo pubblico non è sufficiente il provvedimento di concessione del suolo, ma occorre, a pena di applicazione delle sanzioni in tema di abusivismo edilizio, l’ulteriore ed autonomo titolo edilizio.
Quest’ultimo, infatti, opera su un piano diverso ed ulteriore sia rispetto all’atto di concessione dello spazio pubblico, che culmina con il pagamento della Tosap da parte del concessionario, sia rispetto all’autorizzazione per lo svolgimento dell’attività commerciale all’interno del chiosco.
Infatti, va considerato che il chiosco, così come il gazebo o il dehor, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio e cioè una nuova costruzione che, ai sensi degli articoli 3 e 10 del DPR 380/01, richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire. A nulla rilevano le considerazioni, introdotte per esimerne l’assoggettabilità al testo unico per l’edilizia, circa i materiali utilizzati (per esempio acciaio in luogo di cemento armato) e la stagionalità e provvisorietà, o più in generale l’assenza di stabilità dell’intervento. Infatti, in molti casi tali opere sono legate ai mesi estivi (specie per i chioschi in cui si svolge l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande) o ad un determinato numero di anni, al termine dei quali, in base all’atto di concessione, devono essere smantellati a cura del concessionario.
Sbagliano perciò i Comuni che, in tali fattispecie, applicano solo la tassa di occupazione di suolo pubblico e non richiedono anche l’istanza di permesso di costruire.
L’orientamento seguito dal Consiglio di Stato è ormai consolidato.
Già con sentenza n.986/11, sempre la sesta sezione aveva chiarito che anche una struttura amovibile, in quanto realizzata in acciaio e non in cemento armato, ma ancorata al suolo tramite bulloni e allestita anche solo stagionalmente, richiede comunque il permesso di costruire, a prescindere dai materiali utilizzati e dalle intenzioni del costruttore che- dopo il periodo di utilizzazione- voglia rimuoverlo.
Ancora prima, con sentenza n.7789/09, la quinta sezione del massimo consenso di giustizia amministrativa aveva affermato che sono nuove costruzioni anche “i chioschi per lo svolgimento di attività commerciali che, pur se non infissi al suolo, ma solo aderenti in modo stabile, sono destinati ad un’utilizzazione perdurante nel tempo”.
Da ultimo, il principio di diritto urbanistico in parola è stato ulteriormente confermato dalla sentenza n.39/12 del TAR Marche e dalla sentenza n.215/12 del TAR Puglia sede di Bari